Archivio mensile:dicembre 2013

La Stampa.L’Italia sta ruotando, durerà anni

Secondo l’Ingv i terremoti in Emilia e nelle Prealpi Venete sono diversi ma hanno la stessa antica origine
Fenomeno noto: “La placca Africana spinge e s’incunea sotto le Alpi”. Ma perché oggi la terra
trema di più?

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ROMA
È da quasi un mese che sentiamo tremare il nostro paese sotto i piedi. Non che così tante scosse di terremoto siano un’anomalia senza precedenti.È solo che dal 20 maggio scorso,
l’intensità di queste vibrazioni viene percepita distintamente dalla popolazione che vive sulla
Pianura Padana.L’ultima scossa forte risale a ieri,quando un terremoto di magnitudo 4.5 ha colpito le Prealpi Venete. Nel frattempo una serie di vibrazioni lievi, le cosiddette scosse di
assestamento, continuano a turbare l’Emilia Romagna e ad alimentare gli incubi di una
popolazione già provata. Per gli scienziati non c’è un collegamento diretto fra tutti
questi terremoti, ma il motore di queste scosse sembra comunque lo stesso.
«I terremoti in Emilia e nelle Prealpi Venete non sono in stretta relazione fra loro, anche
se rispondono alla stessa dinamica generale» osserva la sismologa Lucia Margheriti, dalla sala sismica dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv).
La dinamica generale riguarda il movimento della placca Adriatica, che costituisce la punta più settentrionale della placca Africana, allungata come una sorta di lingua che comprende la costa orientale dell’Italia e l’Adriatico.
In questo movimento generale la placca Africana spinge verso Nord, contro la placca Eurasiatica, e in questo movimento la placca Adriatica scende sotto le Alpi.
«È l’Italia che si riorganizza, o meglio sono i pezzi di crosta terrestre sotto i nostri piedi che ora cercano di trovare un nuovo equilibrio, seppur temporaneo» sottolinea Giovanni Gregori, geofisico del Consiglio Nazionale delle Ricerche. In questo senso i terremoti, anche quelli che in quest’ultimo mese hanno colpito altre parti d’Italia, dal Sannio al Pollino ad esempio, sono il segnale di un processo geologico ben più profondo.

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«L’Italia – dice Gregori – sta ruotando in senso antiorario. La parte meridionale della crosta terrestre spinge verso la parte settentrionale e, trovando resistenza nei pressi dello                        Stretto di Messina che fa da perno, ruota e si conficca sotto le Alpi».
Questo movimento generale può provocare terremoti che fra loro sono indipendenti ma che rispondono agli stessi processi geologici.
Come d’ora in poi la situazione si evolverà, impossibile dirlo se non sul piano delle probabilità. Secondo la relazione della Commissione Grandi Rischi «è significativa la probabilità che si attivi il segmento compreso tra Finale Emilia e Ferrara con eventi paragonabili ai maggiori eventi registrati nella sequenza». Non solo.
«Non si può escludere l’eventualità – si legge nel documento – che, pur con minore probabilità, l’attività sismica si estenda in aree limitrofe a quella già attivata sino ad ora».           Non è la previsione di un nuovo terremoto.
«Abbiamo solo espresso le nostre valutazioni scientifiche scaturite dall’analisi dei fenomeni in corso e delle strutture geologiche coinvolte, su cui abbiamo accumulato molte informazioni»,         precisa Luciano Maiani, presidente della Commissione Grandi Rischi.
«Purtroppo i margini di errore di questi probabili scenari sono elevati perché la crosta terrestre è ben lontana dai nostri occhi», dice Warner Marzocchi, dirigente dell’Ingv. L’unico modo per prospettare un possibile scenario futuro è ricorrere ai documenti storici, alle testimonianze dei terremoti passati.
Questo significa per l’Emilia Romagna andare di molti secoli indietro nel tempo. «Abbiamo a disposizione modelli – sottolinea Marzocchi – che al momento ci dicono soltanto che il terremoto potrebbe durare anche qualche anno». L’intensità delle scosse dovrebbe tendere a diminuire ma, considerata la struttura complessa dell’Emilia Romagna, non possiamo escludere sismi di magnitudo pari o superiore a 6.
La parte orientale della struttura sismica padana, quella sotto i piedi di Ferrara, fino ad oggi è stata relativamente tranquilla.Il timore degli scienziati è che, così come hanno fatto quella centrale e occidentale, arrivi a un punto di rottura provocando un terremoto di intensità simile a quello del 20 o del 29 maggio scorso. «L’ultima parola, quindi, spetta alla Natura che, nel caso dei terremoti, parla un linguaggio incomprensibile per noi esseri umani», conclude Marzocchi.

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http://www.lastampa.it/2012/06/10/italia/cronache/l-italia-sta-ruotando-durera-anni-5EK9xYsihK1ehLeYdvzrwO/pagina.html?exp=1

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I Fenici

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Le parole “verità fenicia” o ” fides Punica” e ” storia fenicia ” furono utilizzati dagli antichi Greci e Romani a significare un tradimento o una bugia . Mentre i Fenici erano considerati molto capaci come marinai ( i Romani clonarono con entusiasmo una cinqueremi cartaginese quando la trovarono incagliata ed abbandonata ) , artigiani e commercianti noti, tra le altre cose, per il loro vetro e la porpora , erano disprezzati dalla maggior parte degli scrittori classici che li hanno descritti utilizzando commenti razzisti o proto – razzisti che troviamo nella letteratura degli Ellenici e dei Romani , in pratica fu l’invenzione del razzismo nell’antichità classica.
Nell’Iliade , la descrizione dei Fenici non è negativa , mentre nell’Odissea , inizia la spirale verso il basso .
Nell’Iliade ( 23,740-44 ) ,ci si riferisce ai Fenici come “abili artigiani di Sidone ” e si fa menzione del fatto che i Fenici utilizzavano l’acqua per produrre l’oggetto artigianale. Nell’Odissea ( 14,287-297 ) i Fenici sono invece ingannevoli e avidi .Sempre nell’odissea( Od. 15,415-8 ) , una donna fenicia attraente ed alta è descritta come abile nel lavoro manuale .
Platone ( 427-347 aC )
( Leggi 747C – e) descrive i Fenici come gretti e avidi .In altri punti (D. 637D -e ),li descrive come guerrafondai ( come fa Aristotele [ Pol . 1324b ] ) . Storia fenicia = bugia (Resp. 414c ) .
Plauto ( c. 254-184 aC )
Plauto nella sua commedia su un fenicio, descrive i Fenici come astuti.
Polibio (2 ° C aC )
Cita i Fenici come navigatori .
Diodoro (1 ° C aC )
Pionieri marinai e commercianti .
Cicerone ( c. 106-43 aC )
Barbari con una tradizione come pirati navali , attribuendo il lusso ai Greci e l’avidità ai Fenici . Egli li chiama”i più insidiosi fra gli uomini” .
Cornelio Nepote ( 99-24 aC )
Nepote , il biografo di Annibale , dice che Annibale superò i propri comandanti in abilità.
Livio ( c. 59/64 aC – dC 17/12 )
Annibale è descritto come crudele , perfido , senza timore degli dei e con nessun scrupolo religioso .
Plinio il Vecchio ( 23-79 dC )
Inventori del commercio .
Non è mai esistito un paese o impero chiamato ” Fenicia “.Il termine greco per punico è  ‘ Phoenikes ‘ ( Phoenix) , da ciò , Poenus . I Greci non distinsero tra Fenici occidentali ed orientali , ma i romani lo fecero – una volta che i Fenici occidentali con Cartagine iniziarono a competere con loro .
I Fenici nel periodo dal 1200 ac. fino alla conquista di Alessandro Magno nel 333 , vivevano lungo la costa levantina (e quindi dovrebbero essere considerati Fenici orientali )  . Dopo la diaspora fenicia , Fenici è stato utilizzato per riferirsi a persone dei territori occidentali rispetto alla Grecia .
Il termine fenicio – punico fu talvolta usato per zone della Spagna , Malta , la Sicilia , la Sardegna e l’Italia , dove c’era una presenza fenicia . La designazione latina è Carthaginiensis o Afer , dato che Cartagine era in Africa settentrionale .
Jonathan R. W. Prag scrive:
” La base del problema terminologico è che , se punico sostituisce fenicio come termine generale per il Mediterraneo occidentale successivamente alla metà del VI secolo , poi ciò che è ‘ cartaginese ‘ è ‘ punico , ‘ ma ciò che è ‘ punica ‘ è non necessariamente ‘ cartaginese ‘ ( e, in definitiva tutto è ancora ‘ fenicio ‘) . ”                                                                                                                                                      

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Il nome storico di questa cultura è stato coniato dai greci e,naturalmente, non era il loro. Il nome Phoenicia deriva dalla stessa parola greca che stava ad identificare un colore rosso o viola scuro(phoinix=rosso) ;i Fenici,infatti, erano famosi per le loro tinte porpora della stoffa, soprattutto un tipo molto costoso affine alla regalità.La porpora è una sostanza colorante di tinta rossa violacea ottenuta dalle secrezioni di alcuni “molluschi marini” del genere murex. Il murice è un comune gasterpode (mollusco monovalva) del bacino del Mediterraneo, la cui conchiglia è caratterizzata da un lungo gambo e da protuberanze appuntite sul corpo.Per ottenere questa sostanza colorante, gli artigiani fenici avevano sviluppato una tecnica ben definita: si pescavano dai basi fondali grandi quantità di conchiglie, utilizzando reti con esche di pesce.I molluschi così raccolti venivano riversati in grandi vasche, nelle quali si frantumava la conchiglia. La polpa del mollusco, miscelata con acqua marina e pressata, veniva poi bollita per alcuni giorni in contenitori di piombo fino a ottenere il colorante. Poiché la lingua e gli scritti greci sono rimasti in abbondanza , mentre i testi fenici sono molto scarsi , il nome dato a questo popolo dagli ellenici è rimasto immutato nei secoli.I Fenici sono apparsi sulla scena della storia intorno al 1200 aC , un momento in cui gran parte del mondo civilizzato era invasa dai barbari .Durante questo vuoto politico e militare durato quasi 400 anni, questo piccolo gruppo di commercianti furono in grado di prosperare e gradualmente espandere la loro influenza . Invece di conquistare un impero fisico cercando di annettersi le terre contigue , a poco a poco costruirono una grande rete di commerci e colonie facendo base in alcune città indipendenti lungo la costa di quello che oggi è Libano.Gli abitanti di queste città erano ciò che restava dei Cananei (ancora una volta Canaan significa “rosso porpora”) ,alcune tribù semite che avevano occupato le città-stato in questa regione , prima al 1200 aC . Le più importanti delle loro prime città fondate furono Tiro, Sidone , Berytus ( moderna Beirut) , e Byblos ;queste città costiere erano racchiuse su di un lato dai monti del Libano conseguentemente l’ unica opportunità evidente di espansione e guadagno economico era via mare.Prima del 1200 aC. , i commercianti cananei si erano forse limitati ad operare lungo la costa levantina , l’Egitto e la costa meridionale dell’Anatolia . I minoici di Creta avevano bloccato l’ingresso nel Mar Egeo , e controllavano tutto il commercio in quella zona , e probabilmente controllavano anche il commercio più a ovest . Le città costiere cananee erano certamente controllate dall’ Egitto , e uno delle loro principali attività era fornire il legno ( i famosi cedri del Libano) alla civiltà della regione del Nilo.La civiltà minoica fu distrutta nel 1200 aC e questo fatto eliminò la maggior parte dei vincoli nel Mediterraneo e nel mare Egeo e i Fenici furono i più aggressivi tra coloro che tentarono di riempire il vuoto . In effetti le loro città erano ben posizionate per questa impresa essendo situate letteralmente al centro del mondo conosciuto; l’Egeo,la Mesopotamia e l’ Egitto erano tutti più o meno equidistanti a ovest, sud e est . Per qualsiasi delle tre regioni la via commerciale più semplice per operare con l’altra era attraverso le città fenicie . Dal IX secolo aC , l’antica età oscura si stava avvicinando la fine .                                                                              

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Per i Fenici fu un crescendo di florido e ricco mercato,ma questo attirò nemici, principalmente gli Assiri ed a fronte di ripetuti assalti e pagamenti di pesanti tributi perpetrati da questi, gli abitanti di Tiro adottarono la strategia di stabilire colonie a ovest. Le colonie riuscirono a liberarsi dalla morsa degli Assiri, anche aiutati dallo sfruttamento di metalli e dal commercio nel Mediterraneo.I Fenici di Tiro ( Libano ) fondarono appunto Cartagine , antica città-stato nella zona che è la moderna Tunisia intorno al 700 aC . Altre colonie importanti erano in Sicilia ,in Corsica ,in Sardegna e in Spagna ( le moderne Cadice e Cartagena) . Nel corso dei seguenti 500 anni Cartagine crebbe rapidamente in dimensioni e potenza e la maggior parte della sua ricchezza proveniva dalle miniere della Spagna . Cartagine fu costretta a combattere per il controllo del Mediterraneo occidentale contro i Greci e poi i Romani e,da questo periodo i Fenici divengono,nei libri di storia, i Cartaginesi.
L’economia fenicia fu costruita sulla vendita di legname , la lavorazione del legno e la tintura delle stoffe. I coloranti di tonalità variabili dal rosa al viola profondo erano fatte da una ghiandola di una lumaca di mare . A poco a poco le città-stato fenicie divennero centri di commercio marittimo e di fabbricazione di prodotti. Avendo limitate risorse naturali ,erano costretti ad importare le materie prime materie e modellavano oggetti preziosi che venivano esportati con profitto , come gioielli , metalli , mobili e articoli per la casa .Presero in prestito tecniche e stili da tutti gli angoli del mondo che toccarono come commercianti. Fortificando i siti in Sicilia e nel Nord Africa ,riuscirono effettivamente a negare alle civiltà concorrenti di accedere alle ricchezze della Spagna , della costa occidentale dell’Africa (oro , legni esotici e schiavi ) , e della Gran Bretagna ( stagno, una risorsa strategica e fondamentale, necessaria per produrre bronzo) .

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La religione fenicia era politeista e i loro dèi richiedevano sacrifici continui per prevenire disastri , soprattutto Baal , il dio delle tempeste . Nessun significativo tempio fenicio è stato ancora scoperto ,anche perchè la maggior parte delle loro antiche città giacciono sepolte sotto le città moderne .Anche la Bibbia racconta di sacrifici umani fatti dai Fenici ma questa pratica fu, in un secondo tempo, abbandonata ,non a Cartagine però dove è stato trovato un cimitero fuori dalla città che conteneva migliaia di urne di bambini sacrificati agli dei . Le famiglie nobili di Cartagine presero l’abitudine di utilizzare animali e schiavi al posto dei loro figli , ma in seguito ad un disastro militare nel 320 aC , 500 bambini provenienti dalle migliori famiglie furono sacrificati . La cultura fenicia fu influenzata in larga misura dalle loro origini semitiche e dai vicini semiti . La loro cultura, più tardi, è stata fortemente influenzata dai Greci . Ci sono pochi oggetti conosciuti oggi che sono chiaramente Fenici.Uno dei loro contributi duraturi alla civiltà del mondo è stato un proto- alfabeto , dove ogni lettera rappresentava una consonante così da ridurre in modo significativo il numero di simboli necessari per rendere le parole scritte e,quando pronunciate, le vocali erano implicite. Successivamente i Greci aggiunsero simboli per i suoni vocalici , creando il primo vero alfabeto.
Quando i Fenici iniziarono a competere con i greci per il commercio e le colonie , costruirono le prime navi pensate espressamente per la guerra . Le battagli navali crebbero di importanza durante il quinto secolo, quando la Persia combattè contro le città- stato greche per il controllo del Mar Egeo , l’Anatolia occidentale e il Mediterraneo orientale . In questo periodo le città fenicie erano sotto il controllo della Persia,infatti le navi fenicie costituirono il grosso della flotta persiana che fu sconfitto a Salamina nel 480 aC . I Romani infine eliminarono dal Mediterraneo le navi cartaginesi e portarono le guerre ad una conclusione positiva nel Nortd Africa.I Cartaginesi erano l’unico significativo esercito di terra che poteva essere considerato di derivazione Fenicia. Il loro più grande generale fu Annibale , che invase l’Italia dalla Spagna , passando le Alpi in inverno con il suo esercito e gli elefanti . La maggior parte delle sue truppe erano Celti arruolati in Spagna e in Gallia . Un punto di forza del suo esercito era la cavalleria del Nord Africa, che riuscì a circondare la fanteria romana e contribuire ad annientarla . I Romani infine sconfissero Annibale attaccandolo in Spagna prima, e poi direttamente nel Nord Africa.
Le città Fenicie erano periodicamente sotto il tallone di un conquistatore orientale dopo l’altro da circa il900 aC. al 332 aC . Non erano mai abbastanza forti per tenere a bada i potenti eserciti di Assiria , Babilonia e poi Persia , anche se spesso erano abbastanza ricchi per comprare mercenari da fuori. Nel 332 aC Alessandro Magno le prese una ad una , terminando,ancora una volta, la loro indipendenza .Diventarono città greche e persero la loro identità come Fenice per sempre.Cartagine durò altri 200 anni . Dopo essersi tenuta fuori dall’espansione greca,incontrò sulla propria strada i romani più popolosi e meglio organizzati. Alla fine delle guerre puniche nel 146 aC , il popolo di Cartagine fu portato via in schiavitù e la città fu definitivamente distrutta.
La tradizione fenicia del commercio si è svolta in Libano nel corso degli anni fino ai tempi moderni , a prescindere da chi ne abbia avuto il controllo politico .I Fenici furono la prima cultura civile a raggiungere la Gran Bretagna e le Azzorre . Ci sono prove che circumnavigarono l’Africa su commissione dagli Egizi intorno al 600 aC ed altri indizi (molto discutibili) che avrebbero raggiunto il Nuovo MONDO.IL contributo più importante che hanno lasciato fu comunque il loro alfabeto che ,modificato, si è diffuso in tutto il mondo conosciuto.

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Fonti:
http://www.angelfire.com/

About.comAncient / Classical History
“Poenus Plane Est – But Who Were the ‘Punickes’?”
Jonathan R. W. Prag

Papers of the British School at Rome, Vol. 74, (2006), pp. 1-37
“The Use of Poenus and Carthaginiensis in Early Latin Literature,”
George Fredric Franko
Classical Philology, Vol. 89, No. 2 (Apr., 1994), pp. 153-158

http://www.skuola.net/

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Flussi delle migrazioni umane dall’Africa

E ‘ampiamente accettato che gli esseri umani moderni abbiano avuto origine nell’ Africa sub-sahariana 150-200 mila anni fa, ma il loro percorso di migrazione attraverso il Sahara,in quel momento iperarido, rimane controverso . Dato che i primi esseri umani moderni del Sahara si trovavano ad oriente 120-90 mila anni fa , la dispersione verso nord probabilmente si è verificata durante un episodio di clima umido nel Sahara stesso ( 130-117.000 anni fa) . Il percorso di viaggio più ovvio,cioè il Nilo , può essere escluso dalle notevoli differenze tra i reperti archeologici rinvenuti nella valle del Nilo e quelli trovati ad oriente , databili al momento critico dello spostamento. Più a ovest , immagini dei radar spaziali rivelano, oggi,reti di alvei fluviali fossili,ormai sepolti,che si estendono attraverso il deserto verso la costa mediterranea e che rappresentano i corridoi di percorsi alternativi .
La prova che il Sahara non fu una barriera efficace e insormontabile è data dal numero e la varietà di animali e dagli esseri umani che popolarono il deserto durante le fasi umide del passato . Le analisi della zoogeografia del Sahara mostra che più specie di animali hanno attraversato questi percorsi utilizzandoli, oltre il corridoio Nilo. Inoltre , molte di queste specie,erano acquatiche . Questa migrazione è stata possibile perché durante il periodo umido dell’Olocene la regione conteneva una serie di laghi collegati , fiumi e delta interni composti da ampi corsi d’acqua interconnessi , che convogliavano l’acqua e gli animali in entrata e attraverso il Sahara , facilitando così i movimenti. Questo sistema era ancora attivo nel primo Olocene , quando molte specie sembrano aver occupato tutto il Sahara,anche se le specie che necessitano di acque profonde non hanno mai raggiunto le regioni settentrionali a causa di connessioni idrologiche troppo basse .I siti di sviluppo umani furono influenzati da questa distribuzione , i pescatori di fauna acquatica sahariana con fiocine di osso spinato occupano il Sahara meridionale , mentre i cacciatori con arco e frecce di fauna della Savana si diffondono a sud . La datazione dei sedimenti lacustri mostrano che il ” Sahara verde ” esisteva anche durante l’ultimo periodo interglaciale ( 125.000 anni fa ) cosicché i corridoi erbosi potrebbero aver aperto vie di migrazione, per un certo periodo,per gli esseri umani moderni dall’Africa .

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Nonostante le prove archeo/etniche  implichino una relativamente  recente origine degli esseri umani moderni , la spiegazione dei primi episodi migratori del flusso genetico rimane incompleta .La distribuzione geografica degli aplotipi può mostrare tracce di migrazioni ancestrali . Tuttavia, tali firme evolutive possono essere cancellate facilmente da ricombinazione e perturbazioni mutazionali. La distribuzione geografica degli aplotipi contemporanei manifesta distintivi delle preistoriche migrazioni umane : uno in Oceania , uno in Asia e successivamente in America , e una terza prevalentemente in Europa .

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Tratto da http://www.pnas.org National Academy of Sciences Stanford University
Dal momento che di Stephen Oppenheimer in”The Real Eva” ha suggerito che la principale migrazione fuori dall’ Africa degli esseri umani è avvenuta attraverso la bocca del Golfo di Suez e attraverso le coste dell’Arabia , India e Sud-Est asiatico ( la “via Beachcomber ” ) , la polemica ha imperversato su l’origine degli asiatici , cioè sul fatto che sia che si siano scissi dai primi gruppi in Africa , a volte chiamati macro – aplogruppo M , negli altipiani del nord dell’Asia centrale e del Medio Oriente o altrove . Un grande progetto guidato dai cinesi ha posto fine a questa domanda . Il HUGO Pan- Asian Consorzio 40 – istituzione SNP “, ha concluso con forza che il percorso meridionale ha dato un contributo più importante all’Oriente e alle popolazioni del sud-est asiatico che la rotta del nord “. Li Jin , un genetista della Fudan University di Shanghai , in Cina è stato uno degli autori principali di uno studio riportato su Science , vol . 326 , n. 5959 , p . 1470 , che supporta una migrazione sulla rotta meridionale verso l’Asia .
I consulenti del DNA (che commercializzano i risultati genetici)hanno sempre seguito il modello di Oppenheimer dell’insediamento in Asia , ma altre aziende , tra cui il National Geographic Genographic Progetto con oltre 200.000 clienti che acquistano i loro prodotti ,li informano in modo diverso . La maggior parte delle mappe migratorie umane indicate dalle aziende del DNA e dalle notizie dei media mostrano la scissione degli asiatici dagli europei e dai nativi americani alle latitudini settentrionali dell’Asia centrale e non rappresentano un percorso ” Beachcomber ” meridionale comune a tutti.
La teoria precedentemente dominante di due grandi ondate migratorie dal Medio Oriente deve ora cedere ad una sola migrazione iniziale lungo la strada costiera delle popolazioni verso nord in Asia orientale , India e Sud-Est asiatico.
Tratto da http://www.dnaconsultants.com/

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Micenei

Intorno al 2000 aC alcuni immigrati, di lingua lineare B ( una forma arcaica del greco), si trasferirono nel Mar Egeo . Resti scheletrici confermano che erano alti e con una conformazione robusta . I nuovi arrivati prima utilizzarono la pesca in mare per procacciarsi il cibo per poi scoprire che il terreno secco e roccioso era assai adatto alla coltivazione delle olive e uva . Sembra che questo popolo fosse molto amante della guerra,ed avesse, come governatori, capi militari . In qualche modo sono assimilabili ai vichinghi che affliggeranno l’Europa circa 25 secoli dopo,vivendo la stessa parabola:prima pirati, predoni e commercianti e, dopo la stabiltà in un luogo, divenuti civili. Il termine Micenei deriva da Micene , il primo sito scavato da Heinrich Schliemann dopo la scoperta della leggendaria città di Troia.Non è proprio esatto parlare dei Micenei come di un popolo e di conseguenza una civiltà ben definita,è meglio considerare il termine come epoca Micenea.

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Coloro che comunque identificheremo come Micenei cominciarono a commerciare e ad avere un contatto culturale con i Minoici (utizzatori della lingua lineare A) che influenzarono lo sviluppo delle loro città , la produzione di beni commerciali e miglioramenti in agricoltura . A differenza delle città Minoiche, che non avevano la minima fortificazione , gli insediamenti Micenei erano pesantemente fortificati con mura perimetrali veramente colossali;dal momento che periodicamente venivano fatte irruzioni e saccheggiate le città in territorio ittita ed egiziano le massicce fortificazioni erano probabilmente viste come un costo necessario contro le eventuali ritorsioni . I temi artistici raffigurati su manufatti micenei (scene di guerra e di caccia ) sono in netto contrasto con il contenuto pastorizio delle opere d’arte Minoiche.L’approccio militarista ha funzionato bene per i Micenei, portando loro potere e prosperità e facendo fiorire la loro cultura in maniera massima tra il 1600 e il 1200 aC.

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Le loro credenze religiose sembrano essere state molto simili a quelle delle altre antiche civiltà del tempo poichè la maggioranza di queste ruotavano attorno a due importanti caratteristiche:il politeismo e il sincretismo . Mentre il politeismo è,chiaramente, la credenza in molti dèi il sincretismo riflette la volontà di aggiungere dèi stranieri nel sistema di credenze , anche se le nuove aggiunte, non sono esattamente assimilabili alle precedenti. Quando i Micenei arrivarono nel Mar Egeo, probabilmente avevano un pantheon di divinità guidato da un dio supremo, come la maggior parte dei popoli indo-europei e il suo nome era Dyeus che in greco divenne Zeus . Dopo il contatto con i minoici e le loro dee della terra , queste furono incorporate nel pantheon e divennero Hera , Artemide e Afrodite . Omero immortalò i Micenei nei suoi due poemi epici l’Iliade e l’Odissea . La domanda che viene spesso posta è : “Quante di queste storie sono vere ? ” E la risposta è che mito , storia ed archeologia raramente coincidono. Le leggende micenee di Omero hanno attraversato il tunnel buio del Medioevo e la luce del rinascimento più tardi . Questo filtraggio ha modificato i reali accadimenti alimentando la confusione tra ciò che è evidentemente e chiaramente vero e quello che è il frutto dell’immaginazione .

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Comunque, cosa è successo ai Micenei? Un fatto è che, intorno al 1200 aC, quando la civiltà micenea era al suo apice, siano improvvisamente crollati ed alcuni studiosi ritengono che non sapremo mai con certezza cosa è successo loro e perché. Ci sono molte teorie: la loro storia di violenza militare avrebbe travolto loro stessi,un disastro naturale in un territorio naturalmente afflitto da terremoti ed eruzioni vulcaniche li avrebbe annientati,sarebbero stati decimati da rivolte civili avvenute in seguito a siccità e carestie. In ogni caso ci sono numerose prove che un notevole parte della popolazione civile sia nuovamente migrata verso altri lidi.

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Tutti i venti della terra

http://earth.nullschool.net/

Una visualizzazione delle condizioni meteo globali aggiornate ogni tre ore

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Darwin oggi: biologia evolutiva dello sviluppo (EVO-DEVO) e genoma

 Carlo Alberto Redi

L’ultimo argomento contro il darwinismo è noto come “disegno intelligente”. I sostenitori di questo argomento credono che la vita, animale e vegetale, sia così complessa che non possa essere spiegata dall’azione casuale della selezione naturale in una visione materialista: può solo essere stata diretta da un creatore. Più precisamente, le visioni meno fondamentaliste di questo pensiero arrivano anche ad accettare l’idea di evoluzione, ma diretta da una Mente esterna superiore. A un certo momento dell’evolvere del vivente (tutto ciò che evolve è comunque opera di Dio), l’opera di Dio si manifesta anche con l’immissione di un’anima razionale e immortale in un organismo vivente. L’evoluzione si arricchisce dunque di un salto qualitativo voluto e diretto da Dio. Si verifica una discontinuità nel procedere casuale dei meccanismi evolutivi, discontinuità diretta dall’esterno di quel mondo materiale che per tentativi ed errori fa emergere il più adatto, per selezione naturale, all’ambiente. Si manifesta un disegno intelligente. Negli USA questo è un tema ricorrente da decenni, nonostante una decisione della Corte suprema del 1972 abbia decretato che non è possibile escludere l’insegnamento dell’evoluzione, ovvero attribuire al creazionismo medesimo statuto scientifico.

È da molto tempo che negli USA i creazionisti hanno ingaggiato una vera e propria battaglia per escludere l’insegnamento dell’evoluzione biologica dalle materie di studio, e negli ultimi anni il tentativo è avvenuto anche in Italia. Recentemente, gli amministratori di una scuola di Dover, in Pennsylvania, hanno preteso che gli insegnanti dichiarino che la teoria di Darwin è solo una teoria, e una teoria non è un fatto. L’uso disinvolto del termine “teoria” è già chiaro, ed è un tema ricorrente da parte dei creazionisti. E dunque vale la pena di ricordare che nell’ambito scientifico un’idea può costituire una teoria e rappresentare un fatto allo stesso tempo. Stephen J. Gould (Evolution as Fact and Theory, 1981) ha più volte ben chiarito questo aspetto, ormai da ben più di venticinque anni!

«L’evoluzione è una teoria. Ma è anche un fatto. E fatti e teorie sono cose ben diverse. I fatti sono i dati del mondo. Le teorie sono strutture concettuali, di idee, che spiegano e interpretano i fatti. E i fatti non si dissolvono quando gli scienziati dibattono teorie che rivaleggiano nello spiegarli. La teoria della gravitazione di Einstein ha sostituito quella di Newton, ma non per questo le mele si sono sospese per aria, sono sempre attaccate ai rami dell’albero. “Fatto” non significa certezza assoluta. Le prove finali della logica e della matematica discendono deduttivamente da prestabilite condizioni e acquistano certezza solo perché non si riferiscono al mondo dei dati empirici. Gli evoluzionisti non hanno mai preteso di aver raggiunto verità con validità perpetua; al contrario i creazionisti regolarmente fanno ciò e poi falsamente accusano gli evoluzionisti di impiegare questo stile di argomentazione che essi stessi favoriscono. Nell’ambito scientifico “fatti” può significare solo conferme a un grado di certezza cui sarebbe perverso rifiutare di concedere un provvisorio consenso. Credo che le mele possano nascere domani, ma certamente questa possibilità non meriterebbe di essere considerata nell’insegnamento della fisica o della matematica. Gli evoluzionisti hanno sempre ammesso di sapere quanto lontani noi si sia da una completa conoscenza dei meccanismi (la teoria) attraverso i quali l’evoluzione (il fatto) occorre. Darwin ha sempre sottolineato la differenza tra questi due aspetti: da un lato stabilire il fatto evolutivo e dall’altro proporre una teoria, la selezione naturale, per spiegare il meccanismo dell’evoluzione».

Questa breve premessa per ricordare qual è la materia del contendere. Oggi, con il completamento del sequenziamento del genoma umano e con le possibilità tecniche d’indagine che ci sono permesse a livello molecolare sia del funzionamento dei genomi sia della loro composizione, siamo in grado di dissezionare finemente i meccanismi molecolari alla base dei processi biologici che portano ai cambiamenti morfofunzionali del disegno animale (e vegetale) nel corso dello sviluppo ontogenetico e filogenetico: la nostra provvisoria certezza ha raggiunto un buon livello di soddisfazione. Vediamo i fatti.

Un famoso detto di Feodor Dobžanskij dice che «niente in biologia ha un senso se non nella prospettiva evolutiva»; Peter Brian Medawar, Nobel 1960 per la medicina, aggiunge che «per un biologo l’alternativa a non pensare in termini evolutivi è non pensare del tutto». Alla luce delle attuali conoscenze biologiche, Gabriel Dover ha aggiornato i motti in «niente in evoluzione ha un senso se non nella prospettiva della biologia dello sviluppo e dello studio del genoma», così completando e attualizzando le riflessioni di Dobžanskij e Medawar. In effetti, grazie ai progetti di sequenziamento di vari genomi, negli ultimi decenni le conoscenze biologiche hanno prodotto diversi cambiamenti nei paradigmi concettuali che oggi impieghiamo per spiegare la complessità del vivente ai diversi livelli organizzativi e funzionali.

Uno dei paradigmi concettuali più nuovi e promettenti, conosciuto da specialisti e grande pubblico con l’acronimo di EVO-DEVO, biologia evolutiva dello sviluppo (Evolutionary Developmental Biology), costituisce oggi una delle aree più attive della ricerca biologica. Ciò è dovuto al fatto che si è capito come tutti i fenomeni biologici, dallo sviluppo all’acquisizione delle forme, dai processi fisiologici alle alterazioni patologiche, a qualsivoglia livello di organizzazione del vivente (dal livello molecolare a quello organismico e di popolazione) siano meglio indagabili grazie ai due approcci sperimentali, la biologia evolutiva e quella dello sviluppo, che contribuiscono alla nascita di questa nuova disciplina.

Intorno agli anni ’90 la fusione dei due approcci, quello che studia i meccanismi (genetici) dell’evoluzione e della comparsa di nuovi organismi e quello che studia come i geni controllano lo sviluppo embriologico, dall’attivazione della cellula uovo e la fecondazione sino al completamento della organogenesi e la formazione del nuovo individuo, ha dato luogo formalmente alla nascita di EVO-DEVO. Il concetto di fondo si può riassumere ricordando che i fossili ci informano su come la vita sulla Terra è cambiata ed evoluta nel corso del tempo, ma solo lo studio di come i geni funzionano durante lo sviluppo di un organismo permette di capire come si originano novità nel disegno animale e quindi di capire appieno la storia evolutiva.

Il fenotipo si riferisce alle caratteristiche fisiche dell’organizzazione e del comportamento di un organismo durante il suo ciclo vitale. Il genotipo si riferisce ai fattori ereditari che regolano la produzione di molecole la cui interazione, insieme agli stimoli ambientali, genera e mantiene il fenotipo. I processi che legano il genotipo al fenotipo sono noti come sviluppo. Essi intervengono nella genesi delle novità fenotipiche a partire dalle mutazioni genetiche, intese nel senso più ampio del termine (non solo mutazioni puntiformi di un gene). Le vie evolutive dipendono quindi dallo sviluppo e a cascata, in un modello di controreazione, lo influenzano creando una relazione circolare conosciuta come EVO-DEVO.

La cronologia che porta ad EVO-DEVO si può far iniziare con gli studi di embriologia comparata di von Baer e di Haeckel, prima del 1900; se valutato dalla prospettiva attuale, in questo periodo vi è una netta separazione tra biologia evolutiva e biologia dello sviluppo. Vi è poi un momento, attorno al 1930-1940, in cui prevale lo studio dei meccanismi evolutivi, la nascita della “sintesi moderna” che indaga principalmente i meccanismi genetici alla base del processo evolutivo. Vi è poi un periodo immediatamente successivo, 1950-1970, ove prevale lo studio dei geni che regolano lo sviluppo e responsabili dei “processo-patterns”. Infine, negli anni ’80, lo studio degli homeobox genes e lo studio comparativo dell’espressione spazio-temporale dei geni che regolano lo sviluppo porta alla formalizzazione di EVO-DEVO e alla formulazione dei concetti base della nuova disciplina.

Questi si possono sinteticamente riassumere in tre proposizioni: (1) i geni che controllano lo sviluppo giocano un ruolo “chiave” nella evoluzione; (2) le mutazioni che avvengono nei geni che controllano lo sviluppo embrionale possono originare rapidamente novità fenotipiche; (3) tra le novità fenotipiche alcune hanno possibilità di adattamento evolutivo.

Si delineano in tal modo due spazi, due intorni concettuali i cui contorni sono definiti l’uno da eventi molecolari (intorno molecolare: mutazioni, in senso lato, e comparsa delle novità fenotipiche) e l’altro da eventi ambientali (intorno darwiniano: interazioni sovracellulari, interazioni genoma-ambiente e viceversa, selezione naturale) che si sovrappongono nella transizione cellulare-organismico o ancora in quella dei segnali intrinseci-segnali estrinseci al genoma, non escludendosi mutualmente, ma al contrario essendo l’uno fortemente dipendente dall’altro. Certo, sarà poi il mondo darwiniano a stabilire la permanenza sul pianeta di ogni novità fenotipica! E a noi sarà permesso di apprezzare la fantastica biodiversità che tanto ci affascina, come ha affascinato Charles Darwin, con la spiritualità che emana dalla consapevolezza di sapere l’esistenza di tante diverse specie animali e vegetali essere basata sulla comune origine da un antenato comune, LUCA (Last Universal Common Ancestor, un organismo RNA dipendente!), e ancora tutte unite pressoché dalla medesima costituzione genetica.

I biologi si sono sempre interessati dell’origine delle specie e delle novità fenotipiche giungendo con Darwin a proporre una teoria evolutiva centrata sulla comprensione che i diversi fenotipi costituiscono le unità su cui agisce la selezione naturale. L’elaborazione d’una teoria evolutiva esaustiva deve però considerare non solo le forze che dall’esterno del fenotipo agiscono nel plasmarlo (forze ambientali), ma anche quelle che dall’interno producono le sue variazioni (forze genomiche). Oggi sappiamo, infatti, che i sistemi genetici (i genomi) sono ridondanti e modulari e soggetti a un continuo rimaneggiamento (turnover genomico) nella loro composizione e organizzazione. Questo rimaneggiamento dipende da, ed è dovuto a, meccanismi che potremmo definire di metabolismo del DNA, la capacità cioè di alcune porzioni del DNA di muoversi da una parte all’altra del genoma (trasposizione) o di convertirsi in nuovi geni (conversione genetica) o ancora di ripartirsi in modo ineguale nei discendenti durante la duplicazione cellulare delle cellule germinali (crossingover ineguale) o altri ancora quali la capacità di rispondere a stimoli ambientali interagendo con essi via la trasudazione di segnali ambientali al genoma. Tale turnover genomico è capace di contribuire in modo significativo alla origine di novità fenotipiche nel disegno animale, novità che si formano abbastanza casualmente per effetto del metabolismo del DNA e che vengono quindi sottoposte al vaglio della selezione naturale. Sino a che non conosceremo in dettaglio le regole di trasformazione che connettono lo spazio genotipico allo spazio fenotipico non potremo mai essere soddisfatti di una teoria dell’evoluzione basata sulle conoscenze dei geni e del loro funzionamento. In altre parole, la questione centrale di qualsivoglia teoria evolutiva è quella di capire come uno specifico fenotipo si origina, e si riproduce, da uno specifico assortimento di geni, ereditati dai suoi parenti, in costante dialogo con l’ambiente.

Per la ricerca di schemi e principî di validità generale (aspetto fondamentale in tutte le discipline scientifiche), in EVO-DEVO gli studi più rilevanti sono stati quello dei polimorfismi dell’identità segmentale in Drosophila melanogaster, la variazione intraspecifica del numero di segmenti in alcuni artropodi (centopiedi viventi a diverse altitudini), i pattern di pigmentazione delle ali e degli occhi delle farfalle e lo sviluppo degli occhi.

Una panoramica dei temi generali affrontati dai ricercatori nell’indagine EVO-DEVO, in dipendenza chiaramente dalla prospettiva specifica dei due approcci e dell’inclinazione concettuale degli specialisti dei due settori, vede in primo piano lo studio della natura delle variazioni che si presentano nel corso dello sviluppo embrionale, il ri-uso dei geni nel corso dello sviluppo e quali sono i fattori che promuovono i cambiamenti evolutivi. Ciascuno di questi tre temi ha al suo interno dei concetti specifici: gli errori e le mutazioni che accadono e che sono in grado di portare alla riprogrammazione dello sviluppo embrionale lungo nuove vie morfofisiologiche; il ri-uso di cassette (moduli) di geni che controllano lo sviluppo e che vengono differentemente impiegate in diversi gruppi tassonomici o la cooptazione di geni per un diverso uso; o ancora, tra i fattori capaci di promuovere cambiamenti evolutivi, la duplicazione genica, la divergenza genica, la modularità dell’impiego di diversi geni, il trasferimento orizzontale (da un organismo all’altro) di geni.

Dagli studi di EVO-DEVO è emerso un dato di carattere generale: la conservazione a livello evolutivo dei geni che determinano strutture e proprietà funzionali ritenute evolutivamente indipendenti quali, ad esempio, la segmentazione del corpo degli artropodi e dei cordati o la formazione di arti e appendici nei vertebrati e negli insetti. Più in generale, i risultati di questi lavori indicano che nel corso dell’evoluzione le divergenze biologiche e i cambiamenti morfologici sono accompagnati da un alto grado di conservazione dei moduli genetici (porzioni di genoma) che li determinano, dal che si deduce che le risposte alle domande evolutive sono da cercare fondamentalmente nei meccanismi che regolano l’espressione genica e la composizione del genoma. Oggi sappiamo che i geni sono straordinariamente stabili, anche quando si considerino specie diversificate tra loro da milioni di anni: se ad esempio consideriamo il gruppo di geni Hox, quello che controlla lo sviluppo segmentale del corpo degli animali, questo si è mantenuto essenzialmente lo stesso nell’uomo e in organismi che da questo si sono diversificati da più di 700 milioni di anni.

Lo studio di questi geni dai due punti di vista, della biologia evolutiva e della biologia dello sviluppo, permette di capire meglio come gli organismi si sviluppano, dalla cellula all’uovo adulto, e su quali basi genetiche si instaurano i meccanismi che portano alla comparsa di novità fenotipiche che a volte possono originare nuovi organismi, nuove specie. EVO-DEVO è dunque un campo interdisciplinare di studio basato sulla biologia dello sviluppo, la genomica comparata, la regolazione genica e la biologia evolutiva e il cui concetto chiave è il seguente: l’evoluzione e la diversificazione degli animali e delle piante può essere spiegata dai cambiamenti funzionali dei geni che controllano lo sviluppo. Per questa disciplina l’interesse centrale è capire quali meccanismi determinano la variazione, e la conservazione, della composizione e dell’organizzazione dei genomi come prerequisito a una migliore comprensione dei cambiamenti evolutivi dei geni deputati al controllo dello sviluppo e di quelli che controllano la regolazione della loro espressione e della loro interazione.

Un grande impulso agli studi di EVO-DEVO è stato determinato dal sequenziamento dei genomi. Quando all’inizio degli anni ’80 iniziò l’era del sequenziamento dei genomi, i ricercatori pensavano di poter trovare quali geni producono i diversi organismi grazie alla conoscenza di tutte le basi del DNA che compongono un genoma. Ora che disponiamo d’una buona quantità di genomi completamente sequenziati la nostra visione è cambiata grazie a una fondamentale sorpresa: la genomica comparata mette in evidenza non tanto geni diversi tra i vari organismi quanto piuttosto una grande conservazione di intere famiglie geniche. Il dato più sorprendente che emerge non è costituito dalle differenze, ma piuttosto dalle somiglianze tra le composizioni dei diversi genomi: in altre parole, è emerso che ciò che fa una rana una rana o una mosca una mosca ha poco a che vedere con la presenza di geni specifici dell’uno o dell’altro organismo, ma è in realtà determinato dal modo in cui è regolata l’espressione (nel corso del tempo dello sviluppo e del tempo evolutivo) degli stessi geni presenti nei diversi organismi. O ancora, il DNA funzionalmente cruciale per portare alla formazione d’un insetto o d’un vertebrato emerge come una sorta di arcipelago di sequenze di DNA, geni, conservati nel tempo evolutivo; arcipelago che si trova sopra un mare di DNA (non genico) di dimensioni, composizione e organizzazione diverse tra le tante specie e gruppi tassonomici animali e vegetali. Dal comune lievito, con circa 6.000 geni, all’uomo, con circa 20-30.000 geni, la cassetta genetica è pressoché sempre quella.

È emozionante vedere nella riflessione filosofica, ma anche in quella artistica e letteraria (si pensi a Omero e all’Iliade quale fonte di ispirazione di Francesco Redi per gli esperimenti che lo portarono a confutare la generazione spontanea), la capacità d’intuire ciò che solo dopo molto tempo si riesce a dimostrare scientificamente: già Giordano Bruno nel De monade numero et figura scriveva: «Ma nulla impedisce di essere come gli uomini di una volta che potevano, con i loro sensi, montare fino al livello ove apprendevano a comparare [e riconoscere] le tracce che rischiarano di forte luce il volto della natura dalla quale nasce ogni cosa».

Inoltre, il semplice numero dei geni non correla con la complessità degli organismi, così come intuitivamente possiamo valutarla: il moscerino della frutta Drosophila melanogaster ha meno geni del vermicello nematode Caenorabditis elegans (peraltro molto simili, omologhi). La gran parte della vita animale sul pianeta Terra impiega in differenti modi la stessa collezione basica di geni per produrre organismi molto diversi grazie alla modulazione dell’espressione di quei geni: quando e dove (anatomicamente) un gene si attiva nel corso dello sviluppo embrionale e fetale di un organismo è più rilevante ai fini della diversità animale della presenza di un cambiamento in un aminoacido in una sua proteina. Il “quando” e il “dove” introducono due ulteriori dimensioni nell’elaborazione d’un unico quadro concettuale di sintesi del paradigma darwiniano attuale. E così spesso, un poco per amore di confronto con la grande tradizione della fisica e un poco per segnalare delle intrinseche specificità concettuali che rendono ragione dell’unicità della biologia e della sua autonomia quale disciplina scientifica, i biologi che si occupano di EVO-DEVO amano ricordare che Einstein doveva preoccuparsi di quattro dimensioni per la costruzione della sua Weltanschauung dello spazio e del tempo, mentre i biologi devono fare i conti con ben cinque dimensioni nel tentativo di catturare simultaneamente l’azione dei processi ontogenetici e filogenetici: le tre dello spazio dell’embrione in via di sviluppo e le due temporali, quella dello sviluppo embrionale e quella dell’evoluzione.

Da questo tipo di considerazione nasce l’esigenza di conoscere la composizione e il significato funzionale del DNA regolativo, quel DNA non genico che non codifica per proteine e che a volte è ancora definito DNA spazzatura o DNA ignorante o DNA egoista, termini ormai non più accettabili. Un solo esempio può aiutare a mettere a fuoco la centralità concettuale occupata oggi in biologia dagli studi sul DNA regolativo: l’embrione dei vertebrati abbozza gli arti nella sede ove è espresso il gene per il fattore di crescita dei fibroblasti (FGF). Se si blocca l’espressione del FGF si blocca la formazione degli arti; se si attiva l’FGF in un’altra sede anatomica, l’arto si abbozza nella nuova sede. Nelle mosche, cambiando l’espressione del gene Ultrabithorax è possibile convertire i bilancieri in ali o ottenere delle zampe al posto delle antenne.

Ma per chiudere una volta per tutte le argomentazioni incontrovertibili contro il creazionismo, e dedicare le nostre energie intellettuali a indagare ciò che ancora necessita di affinamenti conoscitivi senza altre perdite di tempo, basterà ricordare due lavori pubblicati su prestigiose riviste nel corso del 2005. Paul Brakefield (Università di Leida) e Vernon French (Università di Edimburgo) riportano su Nature del 3 febbraio 2005 le modalità attraverso le quali diverse specie evolvono differenti caratteristiche fisiche pur impiegando gli stessi “attrezzi” molecolari. In questo caso, i cambiamenti molecolari nella sequenza di DNA d’una regione regolatrice di uno stesso gene producono differenti schemi di pigmentazione e di colorazione nelle ali di diverse specie di insetti. Ma forse più chiara e ultimativa, anche per l’impatto emotivo che comporta, è la chiarificazione dell’origine delle diverse forme dei becchi dei famosi fringuelli delle Galápagos, gli stessi studiati da Darwin e che si collocano nello sviluppo concettuale del pensiero di Darwin al cuore del paradigma evolutivo. Arhat Abžanov e i suoi colleghi del Dipartimento di Genetica della Harvard Medical School di Boston hanno chiarito, e pubblicato su Science, gli eventi molecolari che portano alla formazione delle diverse forme di becco: queste si originano in conseguenza dei cambiamenti dell’espressione d’un unico gene, il gene Bmp4 (quello che controlla la produzione della proteina morfogenetica dell’osso numero 4). Cambiamenti dell’espressione che accadono nel tempo dello sviluppo embrionale e nello spazio anatomico degli organi dell’embrione delle diverse specie danno origine alle varie forme di becco nelle diverse specie di fringuelli. Inoltre, hanno dimostrato la validità del dato manipolando e ingegnerizzando nel pollo lo stesso gene Bmp4, così da portare alla formazione d’un tipo di becco specifico di una specie di fringuello! Si tratta d’una vera e propria prova molecolare d’una parte importante della teoria di Darwin, con buona pace dei suoi detrattori.

È certamente possibile affermare che Darwin sarebbe oggi ben soddisfatto del proprio lavoro: dalla geologia alla paleontologia, dalla botanica alla zoologia e, ora, la biologia molecolare ci dicono che siamo sulla strada giusta per capire da dove veniamo, e forse dove stiamo andando. Stiamo ben preparando la festa per il bicentenario della nascita (2009) di zio Darwin, nonostante i pallidi tentativi d’oscurare la grandezza d’un pensiero che ci aiuta ad acquisire un forte senso di comune appartenenza a un meraviglioso mondo naturale, tutti in modo eguale e senza distinzioni di razze o appartenenze qualsivoglia aggettivate.

L’Autore

Carlo Alberto Redi è professore di Zoologia all’Università di Pavia. Il testo è tratto, col consenso dell’autore, dal volume di Ernesto Capanna, Telmo Pievani, Carlo Alberto Redi Chi ha paura di Darwin, Como-Pavia, Ibis 2006.

http://www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/2008_2_art1.html

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Gobekli Tepe

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Opinione comune degli studiosi è che gli esseri umani prima si insediarono nelle città permanenti,passando dal nomadismo all’allevamento/coltivazione,poi costruirono templi, a partire da circa l’8000 avanti Cristo;questo è sempre stato l’ordine tempistico dei fatti.
Come successo innumerevoli volte,una scoperta,questa volta fatta nel 1994 presso Gobelike Tepe,una zona rurale in Turchia,ha messo in dubbio tutte le radicate convinzioni ,suscitando nuovi interrogativi in merito all’evoluzione delle civiltà.

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Gobekli Tepe,risalente al 10 ° millennio aC è caratterizzato da anelli multipli di enormi colonne di pietra scolpiti con scene di animali ed  è considerato luogo di culto più antico del mondo. Eppure l’evidenza suggerisce che le persone che lo costruirono erano cacciatori semi-nomadi, probabilmente ignari di agricoltura, che ha visto la luce nella zona solo cinque secoli dopo.

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A causa di Gobekli Tepe, gli archeologi sono davanti al problema dell’uovo e la gallina.Sono nati prima i progetti edilizi isolati ( immotivati per una civilà nomade) o i nuclei urbani stabili come si è sempre pensato?

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L’Uomo di Denisova, una svolta nell’evoluzione umana

Un ominide “terzo incomodo” tra Neandertal e Homo sapiens: le nuove analisi del DNA su fossili ritrovati in Siberia dimostrano l’incrocio tra esseri umani arcaici e moderni

di Ker Than*

paleontologia,russia,evoluzione

Questo molare di individuo adulto è uno dei due soli fossili esistenti dell’Uomo di Denisova. Immagine per gentile concessione di David Reich, Nature

Una nuova ricerca genetica rivela che un ominide precedentemente sconosciuto, l’Uomo di Denisova, avrebbe abitato l’Asia per migliaia di anni, probabilmente incrociandosi occasionalmente con uomini moderni (Homo sapiens).Non solo: le nuove analisi del DNA condotte sull’osso della falange di un mignolo di una “ragazza” di 40.000 anni fa trovato nella grotta di Denisova, in Siberia, rivelerebbero che gli abitanti di alcune isole pacifiche di Papua New Guinea potrebbero essere lontani discendenti di queste antiche ibridazioni.

Questa “svolta” nell’evoluzione umana sembra portare ulteriori testimonianze a supporto dell’ipotesi che varie specie del genere Homo – umani moderni e Neandertal, umani moderni e cosiddetti denisoviani, e forse denisoviani e Neandertal – si siano incrociati e abbiano prodotto una prole.

“Non pensiamo che gli uomini di Denisova siano andati in Papua Nuova Guinea”, spiega il coautore dello studio Bence Viola, antropologo dell’Istituto Max Planck di Antropologia Evolutiva di Lipsia, in Germania. “Riteniamo che popolazioni di denisoviani abbiano occupato gran parte dell’Eurasia orientale così come i Neandertal abitavano gran parte dell’Eurasia occidentale”, continua

Viola. “La nostra ipotesi quindi è che gli antenati degli attuali melanesiani abbiano incontrato i denisoviani in Asia sudorientale incrociandosi con loro, e che in seguito si siano spostati in Papua Nuova Guinea”

Ibridazioni fra specie umane
Il genetista Brenna Henn della Stanford University afferma che i ritrovamenti di Denisova, assieme a unaricerca pubblicata in maggio che rivelava incroci fra umani moderni e neandertaliani, suggeriscono che le ibridazioni fossero molto più frequenti di quando si ritenesse in precedenza.

“Fino a sei mesi fa però non esistevano testimonianze genetiche di mescolamento fra esseri umani arcaici e moderni”, afferma Henn, co-firmatario di un articolo che accompagna lo studio pubblicato oggi sulla rivistaNature.

“Poi però sono state presentate queste due ricerche, e non dico che abbiano cambiato tutto, ma certamente vanno a sostegno di un’ipotesi che per anni non è stata neppure presa in considerazione” dai genetisti, dice Henn, non coinvolto nella ricerca.

“È una delle scoperte più intriganti degli ultimi tempi”, commenta Giorgio Manzi, paleoantropologo dell’Università La Sapienza di Roma, non coinvolto nella ricerca. “Si conferma l’esistenza di un ‘terzo incomodo’ fra Neandertal e Homo sapiens; si aggiunge la possibilità che questi uomini si siano incrociati con popolazioni della nostra specie in diffusione. I paleoantropologi sono al lavoro per interpretare questo nuovo indizio genetico alla luce del record fossile”.

Il fossile della falange indica un nuovo tipo umano
La ricerca ruota tutta attorno a un osso fossile della falange del mignolo scoperto nel 2008 a Denisova, che si ritiene appartenesse a un giovane individuo di sesso femminile morto, si ipotizza, fra i 5 e i 7 anni di età.

In precedenza, per uno studio pubblicato su Nature nel marzo 2010, i ricercatori avevano raccolto e sequenziato il DNA mitocondriale, o mtDNA, dell’osso. Ma il mtDNA – che si trasmette solo per via materna – contiene molte meno informazioni sul corredo genetico di una persona di quante invece ne fornisca il DNA nucleare, ovvero prelevato dal nucleo della cellula.

La nuova ricerca rivela che il team è riuscito con successo a estrarre e sequenziare DNA nucleare dal fossile. 

Poi, utilizzando tecniche di comparazione genetica, gli studiosi sono stati in grado di determinare che i Denisoviani differivano sia dagli umani moderni che dai Neandertal, eppure erano strettamente collegati a questi ultimi.

Secondo i ricercatori, la differenziazione fra denisoviani e Neandertal sarebbe avvenuta 350.000 anni fa.

Un ominide dai denti grandi
Assieme all’osso del mignolo, i ricercatori dell’Accademia Russa delle Scienze, che hanno condotto gli scavi, hanno rinvenuto anche un dente che apparteneva a un individuo denisoviano adulto.

Il dente – un molare – è più grande di qualsiasi altro dente di H. sapiens, ma è anche più grande di quello di un Neandertal.

Una nuova specie umana?
I ricercatori sono molto cauti e non definiscono mai i denisoviani una nuova specie, ma li indicano piuttosto come un “sister group” (una forma strettamente imparentata) dei Neandertal.

Se umani moderni e denisoviani erano specie diverse, i loro ibridi non avrebbero potuto riprodursi a loro volta; sembra invece che questi ibridi abbiano prodotto prole, altrimenti il DNA dei denisoviani non avrebbe potuto trasmettersi ai moderni melanesiani. Perciò, ipotizza Viola, è probabile che H. sapiens e denisoviani non fossero specie separate.

Non solo: date le evidenze a sostegno del fatto che H. sapiens si possa essere incrociato con Neandertal – e adesso con i denisoviani – vi sono persino alcuni biologi dell’evoluzione che hanno suggerito di lasciar cadere la diversa denominazione per umani moderni e neandertaliani, e di considerare i due gruppi (Neandertal e Denisova) come sottospecie di Homo sapiens.

*(ha collaborato Stefania Martorelli)

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ROMA – “Noi calabresi distruttori di futuro”, questo il titolo dell’articolo a firma di Mimmo Gangemi sullaStampa del 05/12/2013:

“Tre per tre… tre”, così mugugnava don Peppe per mostrare ch’era immerso in conteggi complicati, da volerci una testa grande quanto una cocuzza lasciata per semente.

Erano le sole parole comprensibili mentre calcolava il prezzo di una partita d’olio che aveva ben chiaro già da prima d’iniziare la manfrina. Lo faceva per impressionare. E impressionava, lui che proveniva da una casa dove il padre «qua dentro? Tutti alfabeti» soleva vantarsi, per averlo copiato dal Barone e storpiato per ignoranza – la parola in bocca al Barone era «analfabeti», per un ulteriore segno di distinzione, potendo delegare che altri scrivessero e leggessero in vece sua.

Erano gli Anni 50. Più di mezzo secolo da allora eppure pochi i progressi rispetto al «tre per tre… tre», visto che la classifica OCSE-Pisa sulla preparazione scolastica dei quindicenni piazza la Calabria ultima in un’Italia che a sua volta annaspa in zona retrocessione, nella colonna di destra della classifica tra i 34 Paesi più sviluppati. La regione se la gioca con la Costa Rica nelle scienze, con la Bulgaria nella lettura, con il Kazakistan nella matematica. Mentre Nord-est e Lombardia sono in cima, in Scienze a ridosso della Corea del Sud, prima. È la riprova di un’Italia a due velocità, e con un gap che tende a crescere.

Io, da ingegnere cresciuto al soldo di un mestiere che toglie fiato al sentimento, m’inchino alla logica dei numeri e ne prendo amaramente atto: l’arretratezza riguarda anche la matematica, il parametro migliore per valutare i dati, operando su simboli identici ovunque e presupponendo ragionamento e logica. Bisogna perciò alzare le mani alla resa, senza inutili levate di scudi campanilistici: si è scavato un divario enorme rispetto al Settentrione e il passo più corto dei nostri quindicenni tara il futuro, dovendosi prevedere un domani peggiore, perché si trascineranno dietro il gap e produrranno un effetto moltiplicatore (…)

Università di Messina, Anni 70. Ricordo una coperta addosso a un professore, mentre veniva fuori dall’ascensore della facoltà, e le botte di alcuni studenti, resi anonimi dalla coperta, per ammorbidirgli le ossa, e la severità agli esami. Ricordo di lauree, all’apparenza conseguite con le buone, stando almeno ai sorrisi larghi e festosi che il candidato scambiava con il professore di turno; sicuro che, a non dargli l’esame, e con un signor voto, le buone sarebbero diventate cattive. E ricordo gli sciacalli, i tanti che, per passare la materia, attendevano che si presentasse uno di quei giovani, oggi professionisti in posti a cassetta, sicuri che il professore non avrebbe fatto figli e figliastri, e sarebbero passati pure loro.

Il quadro è completo se ai peccati recenti si aggiungono le colpe della storia: dopo la paura susseguita ai Fasci Siciliani, le classi dirigenti meridionali disincentivarono la creazione di scuole, convinti che i figli dei contadini, se istruiti, avrebbero preteso diritti; al Sud il processo di alfabetizzazione partì molto dopo rispetto al Nord; la mancanza di università fino agli Anni 70 ha reso più costosa e limitato la formazione di laureati, insegnanti compresi. Ma tutto questo oggi non vale più. Oggi serve prendere coscienza della mediocrità e rimboccarsi le maniche per risorgere (…)

Dolore e sgomento trasudano da questo articolo.